Scrivo queste righe mentre sono in turno, tra un’uscita ed un’altra.
La giornata si preannuncia calda e non solo in senso atmosferico. E’ sempre così, estate dopo estate, quando la popolazione aumenta, forse pure la frenesia di recuperare in pochi giorni la libertà tacitamente sospesa durante tutto un anno e, con loro, puntuale come l’alternarsi delle stagioni (quando ne avevamo quattro, almeno), la frequenza degli interventi di soccorso.
Eppure, nonostante la fatica che si manifesta, implacabile, nel sudore che incolla la divisa di plastica rossa alla pelle, infastidendola senza sollievo alcuno, non posso fare a meno di pensare che quello che sto facendo è un privilegio.
Il privilegio di entrare, seppure di lato e seppure per qualche minuto – che, in realtà, a volte sembra un’eternità, vista l’intensità emotiva di cui quegli attimi sono gravidi – nelle vite delle persone e proprio nel momento in cui esse stesse vorrebbero forse rinchiudersi nella altera dignità della loro sofferenza o, tutt’al più, aprirsi non oltre il ristretto spazio dei più intimi rapporti famigliari, porto sicuro tra i pochi rimasti sicuri in tempi di ingravescente insicurezza.
Ospiti non richiesti, noi soccorritori, iscritti dall’imperscrutabile destino nella lista degli invitati all’ultimo momento, convocati a condividere tempi forti di persone fino ad allora sconosciute senza chiedere il loro gradimento e senza che a noi sia concesso il beneficio della formula R.S.V.P.
Un privilegio, perché essere testimoni della sofferenza altrui, prima ancora che tentare di portarle sollievo, cambia la prospettiva con cui guardare alla propria vita e a come la mettiamo in relazione con quella degli altri.
Un privilegio, perché in un tempo in cui ci sentiamo legittimati ad essere sempre più individualisti, fin quasi al limite dell’egoismo, non c’è occasione in cui noi soccorritori non siamo destinatari di una parola sempre più desueta nel comune vocabolario quotidiano: “grazie”.
E questo anche quando il nostro intervento è vano e, alla fine, si risolve solo nell’atto che, da sempre, raccoglie in sé tutta la pietà umana: la ricomposizione del corpo abbandonato da chi ha terminato la sua corsa quaggiù per continuarla altrove, spesso con ancora i segni delle estreme manovre di rianimazione.
Un privilegio, essere soccorritori. Ancora di più esserlo da volontari. Nonostante quella plastica rossa che d’estate ti si appiccica addosso e d’inverno ti congela le membra.
GIACOMO, un volontario.